La Tempesta è l’ultima opera teatrale di William Shakespeare, rappresentata per la prima volta nel 1611, circa vent’anni dopo l’esordio del drammaturgo inglese. 

Essendo un’opera completata in un periodo della vita che potremmo definire molto maturo – Shakespeare aveva quasi 50 anni e sarebbe morto 5 anni dopo – oltre che giunta a coronamento di una lunga evoluzione stilistica e filosofica, dalla Tempesta non dobbiamo forse aspettarci una trama eccezionale e inimmaginabili colpi di scena, quanto una schietta riflessione sulla realtà, un certo disincanto, e un lieto fine che sa di insoddisfazione. 

Ma andiamo per gradi e partiamo prima di tutto dalla trama. Una trama tagliata a metà, in quanto ci viene mostrata solo la rivalsa di Prospero, ex duca di Milano tradito dal fratello Antonio con il benestare del re di Napoli, Alonso, mentre la sua precedente caduta è soltanto raccontata. 

Un inizio che, quindi, potremmo definire in media res: La Tempesta si apre proprio con una grande tempesta scatenata dalle arti magiche di Prospero che fa naufragare la nave su cui viaggiano insieme l’usurpatore Antonio, re Alonso, e diversi altri personaggi più o meno importanti. 

Il piano del protagonista è semplice: adescare il figlio di Alonso, dato per disperso nel naufragio, farlo innamorare di Miranda, figlia di Prospero, e terrorizzare fino a completo pentimento chiunque abbia contribuito alla cacciata di Prospero dal ducato di Milano. 
Per riuscirci egli si avvale delle arti magiche apprese sull’isola misteriosa dove è ambientata la storia. 

A una prima occhiata la trama, interessante ma non così fantasiosa come quelle a cui Shakespeare ci aveva fatti abituare, non appare eccezionale, né si intravedono momenti di tensione degni di nota. Tuttavia la trama non è la cosa su cui dovremmo, in questo caso, puntare i nostri occhi. I personaggi, invece, rappresentano un elemento molto più interessante e sfaccettato. 

La caratterizzazione di questi personaggi, pur se abbozzata, lascia intravedere una profondità che ammalia e una verosimiglianza che non ci aspetteremmo in un luogo dominato da magia e spiriti. 

Prospero è un uomo anziano che ha subito offese e violenze: abbandonato con la figlia in mare dovrebbe desiderare la vendetta più spietata. Quando i suoi nemici giungono sull’isola lo spettatore non vede l’ora che il sangue scorra a riparare i torti subiti. Eppure Prospero ha ben altro in mente e alla fine gli basta la restituzione del ducato per perdonare ogni affronto. 

E in che modo la ottiene? Ricorrendo alla magia per spaventare e imprigionare i rivali che alla fine, impotenti e terrorizzati, cedono. Certo, Prospero ottiene ben di più: facendo innamorare Miranda con il figlio di Alonso, erede al trono di Napoli, egli si assicura una lunga e potente discendenza reale. Se a questo aggiungiamo che i suoi acerrimi nemici gli devono ora la vita, è un eccellente risultato. Farà forse storcere il naso a chi sperava in una più cruda vendetta, ma forse Prospero è più saggio e lungimirante dello spettatore medio.

Agli ordini del duca decaduto ci sono due esseri curiosi e affascinanti: Ariel e Calibano. 

Essi rappresentano due opposti, secondo una tecnica di costruzione dei personaggi non nuova a Shakespeare. Da una parte Ariel, spirito dell’aria dolce e meticoloso nello svolgimento dei suoi compiti, dall’altra Calibano, essere deforme e mostruoso che cospira contro il proprio padrone. Entrambi anelano a una vita libera e indipendente. Mentre Ariel, nonostante l’impazienza, cerca di guadagnarsi la libertà con la propria diligenza, Calibano cospira contro la vita di Prospero senza successo. Ed è proprio Calibano a risultare il personaggio più intrigante di tutta l’opera, la cui personalità potrebbe essere riassunta da una scena particolare: incontrato per la prima volta nella sua vita un uomo diverso dal proprio padrone, un cantiniere ubriacone di nome Stefano, Calibano non esita a gettarglisi ai piedi dicendo: «Ti prego, sii il mio dio. […] Ti bacerò il piede. Giurerò di essere tuo suddito».

In questo si può osservare un’estremamente cinica ma sorprendente sintesi del comportamento umano (ok, di una parte degli uomini), che non esita a spostare altrove la propria lealtà e a sottomettersi in modo ancor più rigido a un altro potere, con il solo scopo di danneggiare un nemico odiato (in questo caso il bersaglio è Prospero).

Insomma, queste sono però interpretazioni soggettive permesse da una trama e da una caratterizzazione molto flessibili, multicolore. Il non detto, nella Tempesta, è molto più del detto. Davanti agli occhi dello spettatore c’è una nebbia, una visione a volte fumosa e inconsistente paragonabile a quella che si avrebbe durante un sogno. E non è un caso che parli di sogni la frase più famosa e citata dell’opera, pronunciata da Prospero nel quarto atto: «Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno». 

E proprio questo che sembra La Tempesta: un sogno un po’ movimentato, ricco di speranze, desideri e paure. Prospero sa che morirà, prima o poi. Forse egli, consapevole di questa verità, non ha bisogno di una vendetta sanguinaria: vuole solo tornare a casa, riavere tutto come prima e, finita la tempesta, finalmente risvegliarsi nel suo letto.  

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