Poesia

Giocare con le parole
quindi sedurle piegarle
spremerle estrarne la polpa
partorirne il succo chiamarlo poesia
benvenuta, figlia di un’orgia di sogni
fammi gustare i sapori
di tutte le vite che hai dentro

Fantasma digitale

Dal vivo ho osservato
la tua elettricità nelle ossa
dal vivo ho ascoltato
le cicatrici della tua voce
Esondavi ricordi persone pensieri
labbra ardenti bruciature
e ho guardato e ho visto te

Ora un sorriso di 3 megabyte
e il tuo sguardo salvato nel cloud
mi osservano dietro lo schermo
retroilluminato
e non sei tu

Commento a “Il nome della rosa”

Ho letto il Nome della Rosa, libro che mi è piaciuto moltissimo, sebbene probabilmente non rientrerà nella mia top10. In ogni caso sia il mondo ricreato da Eco, sia gli argomenti trattati, sia lo stile della narrazione, lo rendono un capolavoro che merita il successo ottenuto nel tempo. Va da sé che un libro del genere, oggi, nessuno lo pubblicherebbe, cosa che dovrebbe far riflettere sullo stato misero della nostra editoria. 

Ma, tornando, al libro, mi ha molto affascinato il titolo: il nome della rosa. Per tutto il romanzo ho atteso quelle parole che svelassero l’arcano, che mostrassero il recondito significato dietro tale scelta. E queste parole si sono mostrate solo alla fine, solo all’ultima riga, e neppure in modo così esplicito, tanto che in realtà, terminato il romanzo, servirebbe un ulteriore approfondimento effettuato su altri libri o interviste per capirne di più. E così ho fatto, sebbene ancora non abbia letto le Postille di Eco.
Ed ecco l’ultima riga del libro: “la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”. Riga tradotta, in realtà, essendo in latino nell’originale. Null’altro a chiarire il significato del titolo.

Possediamo soltanto i nomi: questo mi fa riflettere prima di tutto sul potere della parola. Le parole sono non solo più forti, ma anche più importanti dell’oggetto a cui esse si riferiscono. Anche quando l’oggetto non esiste, la parola esiste, anzi. 

Di conseguenza il potere materiale e concreto conseguibile nel mondo, lo si consegue prima di tutto con la parola. In maniera non dissimile, noi non possediamo gli eventi, ma il ricordo di questi, le parole di questi. E se cambiamo le parole cambiano anche i ricordi, e cambiano anche gli eventi. 

E allora cosa è vero e cosa è falso? Qual è la verità?

Nel Nome della Rosa tutti i misteri ruotano attorno alla biblioteca, la cassaforte che custodisce i libri, cioè le parole, cioè i nomi. Jorge, Malachia, Abbone vogliono che la biblioteca resti interdetta al pubblico, accessibile soltanto tramite la loro mediazione. Ciò significa che, ponendosi loro tra i libri e il pubblico, loro detengono un enorme potere censorio, interpretativo e direzionale. Ciò che esiste del passato esiste esclusivamente in base a quante informazioni escono dalla biblioteca. 

Il discorso è questo: tale atteggiamento nei confronti dell’informazione è giusto o sbagliato? 

A un primo sguardo sembrerebbe sbagliato, e infatti sono gli antagonisti a voler celare i segreti della biblioteca. Eppure cosa succede non appena Guglielmo svela il mistero e mette a nudo le trame avversarie? Arriva l’Apocalisse. Jorge l’aveva annunciata, l’apocalisse, ed effettivamente questa giunge sotto forma di un incendio che distrugge tutta l’abbazia, compresa la biblioteca, compresi i libri, le parole, le informazioni. Anche la società, non solo l’uomo, torna alla cenere: E dunque non era forse meglio che tutto ciò sopravvivesse, anche se controllato o manipolato (l’informazione, anche libera, sempre resta manipolabile, comunque). 

Quante volte, durante il romanzo, Eco taccia Guglielmo di essere orgoglioso? Non è forse per il suo orgoglio e per la sua testardaggine che la biblioteca perisce? 

E traslando il discorso alla nostra epoca: la quantità di informazione garantita da internet è davvero ciò che sottostà a una fantomatica “libertà”? Le infinite parole, gli infiniti nomi, non equivalgono forse a nessuna parola, nessun nome? E senza parole, senza nomi, la società non è persa?

La Tempesta di Shakespeare

La Tempesta è l’ultima opera teatrale di William Shakespeare, rappresentata per la prima volta nel 1611, circa vent’anni dopo l’esordio del drammaturgo inglese. 

Essendo un’opera completata in un periodo della vita che potremmo definire molto maturo – Shakespeare aveva quasi 50 anni e sarebbe morto 5 anni dopo – oltre che giunta a coronamento di una lunga evoluzione stilistica e filosofica, dalla Tempesta non dobbiamo forse aspettarci una trama eccezionale e inimmaginabili colpi di scena, quanto una schietta riflessione sulla realtà, un certo disincanto, e un lieto fine che sa di insoddisfazione. 

Ma andiamo per gradi e partiamo prima di tutto dalla trama. Una trama tagliata a metà, in quanto ci viene mostrata solo la rivalsa di Prospero, ex duca di Milano tradito dal fratello Antonio con il benestare del re di Napoli, Alonso, mentre la sua precedente caduta è soltanto raccontata. 

Un inizio che, quindi, potremmo definire in media res: La Tempesta si apre proprio con una grande tempesta scatenata dalle arti magiche di Prospero che fa naufragare la nave su cui viaggiano insieme l’usurpatore Antonio, re Alonso, e diversi altri personaggi più o meno importanti. 

Il piano del protagonista è semplice: adescare il figlio di Alonso, dato per disperso nel naufragio, farlo innamorare di Miranda, figlia di Prospero, e terrorizzare fino a completo pentimento chiunque abbia contribuito alla cacciata di Prospero dal ducato di Milano. 
Per riuscirci egli si avvale delle arti magiche apprese sull’isola misteriosa dove è ambientata la storia. 

A una prima occhiata la trama, interessante ma non così fantasiosa come quelle a cui Shakespeare ci aveva fatti abituare, non appare eccezionale, né si intravedono momenti di tensione degni di nota. Tuttavia la trama non è la cosa su cui dovremmo, in questo caso, puntare i nostri occhi. I personaggi, invece, rappresentano un elemento molto più interessante e sfaccettato. 

La caratterizzazione di questi personaggi, pur se abbozzata, lascia intravedere una profondità che ammalia e una verosimiglianza che non ci aspetteremmo in un luogo dominato da magia e spiriti. 

Prospero è un uomo anziano che ha subito offese e violenze: abbandonato con la figlia in mare dovrebbe desiderare la vendetta più spietata. Quando i suoi nemici giungono sull’isola lo spettatore non vede l’ora che il sangue scorra a riparare i torti subiti. Eppure Prospero ha ben altro in mente e alla fine gli basta la restituzione del ducato per perdonare ogni affronto. 

E in che modo la ottiene? Ricorrendo alla magia per spaventare e imprigionare i rivali che alla fine, impotenti e terrorizzati, cedono. Certo, Prospero ottiene ben di più: facendo innamorare Miranda con il figlio di Alonso, erede al trono di Napoli, egli si assicura una lunga e potente discendenza reale. Se a questo aggiungiamo che i suoi acerrimi nemici gli devono ora la vita, è un eccellente risultato. Farà forse storcere il naso a chi sperava in una più cruda vendetta, ma forse Prospero è più saggio e lungimirante dello spettatore medio.

Agli ordini del duca decaduto ci sono due esseri curiosi e affascinanti: Ariel e Calibano. 

Essi rappresentano due opposti, secondo una tecnica di costruzione dei personaggi non nuova a Shakespeare. Da una parte Ariel, spirito dell’aria dolce e meticoloso nello svolgimento dei suoi compiti, dall’altra Calibano, essere deforme e mostruoso che cospira contro il proprio padrone. Entrambi anelano a una vita libera e indipendente. Mentre Ariel, nonostante l’impazienza, cerca di guadagnarsi la libertà con la propria diligenza, Calibano cospira contro la vita di Prospero senza successo. Ed è proprio Calibano a risultare il personaggio più intrigante di tutta l’opera, la cui personalità potrebbe essere riassunta da una scena particolare: incontrato per la prima volta nella sua vita un uomo diverso dal proprio padrone, un cantiniere ubriacone di nome Stefano, Calibano non esita a gettarglisi ai piedi dicendo: «Ti prego, sii il mio dio. […] Ti bacerò il piede. Giurerò di essere tuo suddito».

In questo si può osservare un’estremamente cinica ma sorprendente sintesi del comportamento umano (ok, di una parte degli uomini), che non esita a spostare altrove la propria lealtà e a sottomettersi in modo ancor più rigido a un altro potere, con il solo scopo di danneggiare un nemico odiato (in questo caso il bersaglio è Prospero).

Insomma, queste sono però interpretazioni soggettive permesse da una trama e da una caratterizzazione molto flessibili, multicolore. Il non detto, nella Tempesta, è molto più del detto. Davanti agli occhi dello spettatore c’è una nebbia, una visione a volte fumosa e inconsistente paragonabile a quella che si avrebbe durante un sogno. E non è un caso che parli di sogni la frase più famosa e citata dell’opera, pronunciata da Prospero nel quarto atto: «Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno». 

E proprio questo che sembra La Tempesta: un sogno un po’ movimentato, ricco di speranze, desideri e paure. Prospero sa che morirà, prima o poi. Forse egli, consapevole di questa verità, non ha bisogno di una vendetta sanguinaria: vuole solo tornare a casa, riavere tutto come prima e, finita la tempesta, finalmente risvegliarsi nel suo letto.  

Liberi

Lascia liberi i nostri corpi
di esplorarsi
di arrampicarsi sui brividi
di acciuffarsi sul precipizio
Perché tenerli chiusi  in gabbie di dubbi?
I corpi dovrebbero vivere 
nel loro ambiente naturale
l’uno sull’altro

APPUNTAMENTO

Ci siamo dati appuntamento
dietro l’angolo di un sogno
in quell’ora della notte dove non si esiste.

Ma il tempo ci ha scovati anche stavolta
e la luce sua complice
è giunta a tradirti, a frugarmi
tra le pupille, a rapirti
per lasciarmi con lo sguardo
perso in un mondo
che adesso dorme altrove

CORPI

Prendi il mio cuore per un lembo 
e tiralo verso la casa dei tuoi pensieri.
Poi getta le metafore sul pavimento
spogliati delle parole
 e guardami con la pelle
Tutto ciò che c’è di vero è la carne
il calore del sole nei nostri respiri
lasciamo i progetti a chi prega un domani
e accontentiamoci di sapere 
che anche i sentimenti hanno un corpo.